In anteprima le presentazioni del libro di Daniele Duca: “Mi ricordo che”
In anteprima le presentazioni del libro di Daniele Duca: “Mi ricordo che”
I ricordi ci uccidono. Senza memoria saremmo immortali. (Gesualdo Bufalino)
di ENZO CARLI
SENIGALLIA – Dopo il successo di pubblico al circolo Osimano :”Mario Giacomelli”, e al Circolo Nautico di Senigallia ai Fotografi dello storico Manifesto Passaggio di Frontiera (Premio nazionele G.da Fabriano 2013 e ai quali Duca aderisce dal 2008), continuano le presentazioni in anteprima dell’l’ultimo libro di Daniele Duca (uscirà in tutt’Italia a settembre) :”Mi ricordo che” editato da Alinari, con la prefazione di Ferdinando Scianna e la cura critica del senigalliese Enzo Carli.
Daniele Duca attraverso il potenziale evocativo e simbolico delle fotografie, mette a nudo i bisogni della sua interiorità, del suo ricordo, un amarcord circoscritto e circostanziato le cui origini si rifanno alla m emoria rievocativa, una visione surrealista in cui rielabora in maniera originale le tracce di un passato vissuto.
E’ una fotografia antropologica, legata alla sue storie personali che ricerca la verità nei confini delle proprie origini, nella propositività della propria matrice culturale, nell’interazione con il proprio ambiente attraverso il recupero del vissuto, della memoria, del ricordo. Una memoria di rievocazione che richiama alla mente fatti vissuti e una memoria di riconoscimento che attraverso ii dettagli ricostruisce la scena accaduta provocando con le immagini un printing semantico per facilitare il ricordo . Le fotografie di Daniele Duca si propongono come nuova acquisizione di conoscenza che avviene in simultanea con lo sfoltimento dell’archivio ritrovato e la consapevolezza del richiamo evocativo. Si riappropria della sua autonomia espressiva sviluppando con le immagini la capacità di comunicare le trame della suo ricordo creativo. Sono immagini che propongono una sorta di evidenza dell’inosservato- un continuo trascendimento nell’indagine del tempo passato-una nuova riproposizione di realtà di immagini che riscattano la sedimentazione della memoria per una esplorazione complessa nel mondo degli affetti, dei segni e della conoscenza. La fotografia- self media eccellente, una portatile del non senso- libera un inventario di immagini cliniche, terapeutiche che scatenano emozioni, momenti che hanno costituito per Daniele, un rifugio contro le ansie e le angosce giovanili; nello stesso tempo le immagini ci obbligano ad un rapporto vincolante con quanto rappresentato, un ritorno al passato per l’esternazione del ricordo che ha nelle fotografie un valore semantico differente.
Daniele Duca vaga tra gli ambienti del tempo a lui noto; dagli utensili di un piccolo deposito, luogo di incontri, e discussioni e ricordi, ad una falegnameria, ad un’officina meccanica dove la suggestione lo conduce al grande Padre nella formazione e iniziazione di un giovane accolito. Alle pareti dei luoghi le tracce del lavoro, appunti, schemi, e nel rispetto della migliore tradizione ritrattistica ( la deferenza dello sguardo), tutta una serie di fotografie tra cui sovrasta la grande Madre e un Daniele bambino: gli atteggiamenti relazionali e comportamentali perdono peso e si dilatano dell’intensità del ricordo. Daniele Duca blocca il tempo, rifonde vita alle immagini e le carica di poesia, quella improvvisa e dominante dei paesaggi tra interni/ esterni come una porta a vetro pronta ad aprirsi ( ma dove?) e a riflettere le emozioni. Un effetto catartico in equilibrio con i pesi della resa estetica, degli accostamenti, della composizione grafica del particolare, della texture, del taglio della luce, dalla variazione tonale della scala dei grigi, dal bianco e nero dell’origine, all’ estremo rigore della stampa baritata.
Dal disposto combinato delle immagini potremmo ipotizzare tre dimensioni del ricordo, percorsi della memoria. In primis il ricordo, raccontato per immagini è celebrato in una sorta di “anticamera mentale” dove la sedimentazione è distratta da suggestioni originali e dove tutto appartiene a tutti e nel contempo al deposito della memoria.
L’immagine di un cancello aperto, un invito ad entrare ( la felicità spesso si insinua attraverso una porta che non sapevate di aver lasciato aperta.” – John Barrymore) apre la seconda parte del ricordo per immagini. La rappresentazione nitida, consistente accompagnata dalla struttura formale delle foto diffonde la poesia dell’esistenza; le rifrazioni si fondono con le variazioni della memoria. Il bianco e nero ha fermato quel tempo lontano con i suoi segreti come i riflessi sui vetri si fondono e si specchiano con l’altra parte del mondo. I ricordi più marcati, intensi invitano alla riflessione; la contrapposizione dei pesi e l’equilibrio compositivo sono utilizzati da Daniele Duca per mettere in ordine con chiarezza e sistemicità i propri ricordi.
Una fotografia che come moderno ed estremo strumento espressivo entra in modo ineludibile nell’attività privata di Daniele Duca rivelando la rete complessa delle informazioni e rappresentandola come aspetto dinamico di conoscenza tra memoria e spazio esistenziale.
Con le immagini sull’officina meccanica Daniele Duca risale lungo il fiume delle Sue reminiscenze, flashback personali, fino alle origini. Sono fotografie determinate, ripescate nell’archivio del tempo, che coinvolgono la sua infanzia attraverso le testimonianze delle antiche riprese e delimitano gli spazi essenziali del suo percorso per ritrovare quindi l’autenticità del rapporto con le sue matrici e contestualmente rivendicare la sua centralità e propositività creativa.
Il mirino della camera mi rinvia l’immagine di mio padre, in tuta nella sua officina meccanica. Guardo dentro e oltre a comporre mi chiedo coso conosco davvero di lui, in questa sequenza commissionata per una rivista dove per la prima volta quest’uomo diventa un soggetto da ritrarre.
Vedo una persona non più giovane, capelli bianchi ondulati, sguardo attento quasi severo verso un apprendista a tratti timoroso. Eppure, forse, è la mia immagine riflessa. La mia stessa postura, vaghe e strette somiglianze con me. Mentre fotografo nasce tra noi un corto circuito che propone interrogativi, avulsi e frequenti. Forse è questa la magia della fotografia.
Vedo un uomo orgoglioso così attento nel ruolo di tutore, che invia segnali difficili da decifrare. Mi ricordo di lui quando ero piccolo, quegli attimi di felicità che durano ancora, ora che sono un uomo dentro un tempo che passa veloce, sferragliando come il rumore dell’otturatore, impietoso, nelle sue tracce, dove il punto di vista si chiama futuro, dove comunque permane questo crepuscolo di vita che crea angoscia mentre continuo a scattare.
Mi fermo un attimo ma loro non sembrano accorgersi, mio padre visiona il lavoro e l’apprendista è contento. Cerco di fermare questi attimi e andare oltre il sentimento, preciso e senza coinvolgimenti. La fotografia non mente sulla sua esistenza, è questo il noema ed è per questo realtà e testimonianza di un tempo passato e mentre rifletto sul potere di autenticazione rispetto alla raffigurazione, mi stordisce un’immagine luminosa, fatata che lentamente emerge tra le altre e mi viene dolcemente incontro. E’ mia madre.
Chiudo ora la cartella di questa sequenza in pellicola e leggo 1995. Quanto tempo passato. E nonostante tutto, mi ricordo che.
La direzione intrapresa da Daniele Duca non ci fornisce solo risposte ma ci spinge all’induzione quasi magnetica , all’attrazione di alcune immagini frenate, al corto circuito provocato dal deposito del tempo, dall’archivio del ricordo, dall’idea dl passione ( mi ricordo che) che grazie alle immagini di un tempo transitorio dilata la percezione fino a ripeterla nelle immagini rinnovate per necessità, fino allo sfinimento. La psicologia della percezione e le ricerche tecniche della gestalt ci sostengono nel riconoscere in primis cose (persone e ambienti) che ci sono familiari e dei quali abbiamo esperienza e memoria, una comunanza che innesca l’attenzione.
Nuove porzioni di realtà figurata dai diversi significati, quelli delle giustificazioni intime alla rappresentazione degli indicibili resti del paesaggio del lavoro. L’interiorità di Daniele Duca, manifesta degli stati d’animo, del grido di disperazione e del sogno, attraverso il ricordo si riflette e si specchia e ci porta a nuove interpretazioni di un nuovo trasferimento d’identità. Dunque una fotografia personale e riservata- privact aspect- attraverso il pretesto (necessario) di una ricerca sul vissuto, nel contesto della narrazione sociale, come un insieme integrato di forze vitali. Un rinvenimento mnemonico attraverso il recupero dell’album di famiglia, che si colloca a pieno titolo,nella direzione di ricerca della moderna fotografia. La sociologia delle immagini ( Harper, Visual Sociology- The American Sociologist Spring) interpretano le immagini che vengono realizzate attraverso un processo di identificazione e analisi dei risultati simbolici – la foto stimolo – sostenendole con il report verbale nell’area della restituzione. Insomma un rinvenimento della memoria che rielabora il proprio vissuto come estensione della memoria, come condotta auto rivelativa volta a raccontare di sé e delle proprie esperienze latenti, attraverso il recupero border-line della vita degli altri .La sospensione temporale è in grado di l’emozione svincolata dal relais raziocinante, dotata di nuovo senso che permette alla percezione visiva di innescare il sentimento, stati d’animo tra stupefazione e incanto, struggimento e brivido evocativo, riempiendo lo spazio di attimi che sembravano ormai persi. Daniele Duca evidenzia più nessi e collegamenti della conoscenza e del ricordo, espliciti o impliciti, coinvolgendo a tutto campo le strutture sottocorticali. Questo lavoro si inserisce fotograficamente in un incerto passaggio epocale dai continui e mutevoli significati che tramano le immagini precarie della nostra esistenza. Daniele Duca attraversa questa indagine dentro la propria natura e quella stessa della fotografia, illuminata dagli spazi di luce sul mondo della propria interiorità.
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Mi ricordo che
di Daniele Duca
Ed. Alinari 2016
a cura di Enzo Carli
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