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Un ritratto marmoreo di papa Benedetto XIV Lambertini sepolto a Senigallia nel fondo di un archivio comunale

Un ritratto marmoreo di papa Benedetto XIV Lambertini sepolto a Senigallia nel fondo di un archivio comunale

La possibile attribuzione dell’opera a Pietro Bracci è appropriata, così come lo è riproporla e trovarle una degna collocazione, soprattutto ora che l’Amministrazione comunale ha ritenuto di celebrare sul pavimento di una piazza l’uomo che volle ampliata la città “con un’idea corrispondente alla grandezza dell’animo suo”

di LEONARDO BADIOLI

SENIGALLIA – Una irresistibile tendenza al kitsch pervade ormai ogni opera di riqualificazione dell’ambiente urbano senigalliese e di molti suoi oggetti.

Nel dubbio tra l’autentico e il falso, l’autorità comunale e quella delle Soprintendenze non hanno dubbi nel preferire il secondo. La Piazza del Duca riquadrata e livellata in pietra bianca, la facciata del Palazzo scialbata (resa scialba) da una uniformazione atemporale, il Palazzetto Baviera trasformato da abitazione storica in mostra dell’arredamento museale e un soffitto di grande arte trasformato in feticcio, gli insopprimibili lampioni finto-ottocento seminati dovunque nel centro cittadino. E i vari stemmi sparsi sul pavimento urbano sono altrettanti manifesti di una concezione del bello acculturata e vagamente tamarra, tutta volta alla celebrazione dell’inesistente.

Non ci sarebbe niente di male in tutto in questo: il kitsch può essere divertente, a condizione però che ammetta di essere tale e non pretenda di mettersi al posto dell’originale.

Qui invece assistiamo alla sostituzione sistematica del vero col posticcio. Una specie di paramnesia. Ogni intervento sulle piazze è preceduto da una efferata stesa di cemento che seppellisce definitivamente il passato: la macchina della fontana guidobaldesca e le antichità romane in Piazza del Duomo, viste e certificate solo dagli spin-doctors coi quali le amministrazioni si mettono le penne del pavone, inneggiano alla città “ritrovata” nel momento stesso in cui cancellano definitivamente le stratificazioni della storia.

Così mentre l’esplanade davanti al Duomo si offre impudicamente al gusto corrotto di un presente immemore, degradano nell’incuria la stessa Porta Lambertina (ogni estate nascosta da un palco effimero e usata come rimessaggio degli spettacoli che vi si tengono) e il selciato cittadino, quello sì testimone autentico di una continuità che ebbe inizio proprio con l’ampliazione settecentesca.

Lo stemma calpestabile di papa Benedetto XIV Lambertini, illuminista irascibile e bonario che consegnò alla città della Fiera Franca quella monumentalità che non sfuggì all’occhio dell’urbanista Cervellati, si sovrappone al presente della memoria al punto da farci dimenticare l’autentico ritratto rimasto nascosto nel fondo di un archivio.

Eppure, chi ha avuto la ventura di vederlo si è reso subito conto del valore artistico di quel busto berniniano e della sua finezza esecutiva, anche se non è un marmista o un critico d’arte.

È da dire che il papa bolognese ebbe in vita una buona fortuna iconografica. Ci sono immagini di lui e busti in marmo in luoghi più prestigiosi e, certo, più ariosi del ripostiglio in cui attualmente giace quello che è toccato in eredità a noi senigalliesi: il Museo del Castello di Milano, la Fondazione Cini a Venezia, il Bode Museum a Berlino, il Musée di Grenoble, il Museo della Città di Rimini, il Palazzo Comunale di Pergola e il Sacro Convento di San Francesco ad Assisi. E quasi in ognuno di questi al titolo “Busto di Benedetto XIV” segue l’attribuzione, certa o presunta, allo scalpello di un grande scultore del Settecento: Pietro Bracci.

Era costui un artista celebrato ai suoi tempi, attivo in un ambiente di alto livello artistico come quello romano, ancora indugiante nel tardobarocco seguito al magistero di Bernini e temperato a quello di un Carlo Maratta, ma non ancora pronto alla nuova arte di Canova; non certo un innovatore, il Bracci, ma capace di rappresentare il trait-d’union tra due stili e temperie ai capi e nell’arco di una lunga carriera.

Servirà un expertise, naturalmente, ma non è improprio indicare questo grande scultore come possibile autore.

La fortuna iconografica di Lambertini, poi, non finisce con la sua morte, avvenuta nel 1758, ma riprende nel 1905 attraverso un’opera teatrale del commediografo bolognese Alfredo Testoni, “Il Cardinale Lambertini”; nel 1954 con lo stesso titolo in un film diretto da Giorgio Pàstina in cui l’attore Gino Cervi fuse la propria faccia con la sua; e in uno sceneggiato televisivo del 1963.

Dell’elenco dei ritratti a tutto tondo di Papa Lambertini ho volontariamente escluso quello che attualmente si trova dormiente dietro un séparé nel fondo dell’Archivio della Biblioteca Antonelliana, ripudiato e sottratto alla vista di chiunque.

In più occasioni cittadini competenti o curiosi se ne sono interessati. Toccherà al Comune – intendo dire alla parte politica del Comune, più che a quella funzionariale – di riproporne l’immagine e la visione. La possibile attribuzione dell’opera a Pietro Bracci è appropriata, così come lo è riproporla e trovarle una degna collocazione – ora che l’Amministrazione comunale ha ritenuto di celebrare sul pavimento di una piazza l’uomo che volle ampliata la città “con un’idea corrispondente alla grandezza dell’animo suo” (Notificazione del 1758).

Tenerlo a mente servirà almeno ad evitare che i signori della politica territoriale, come sogliono a ogni segnalazione che ad essi perviene, rispondano col loro inevitabile “c’è già un progetto”; ricordarsene, oltre tutto, ci risparmierebbe il trionfale stupore quando di questo busto, come di ogni altra opera cui mettono mano, tornassero a parlare del “papa ritrovato”.

 

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