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Quando, dalle parti di Ginevra, nacque Il vampiro di John Polidori…

Quando, dalle parti di Ginevra, nacque Il vampiro di John Polidori…

di LUCA RACHETTA

Non tutti sanno che a Cologny, nel cantone di Ginevra, si trova la splendida Villa Diodati, affittata per un periodo da Lord Byron e da lui eletta a teatro di una contesa letteraria ingaggiata con i suoi ospiti, vale a dire John William Polidori e i coniugi Percy e Mary Shelley.

Il notissimo romanzo di quest’ultima, Frankenstein o il moderno Prometeo, caposaldo del genere horror, cominciò a prendere forma proprio nei tre giorni del giugno del 1816 in cui la suddetta compagnia cercò di vincere la malinconia derivata dalle cattive condizioni meteorologiche e il tedio di ben più profonda e oscura origine adottando un passatempo che, dato il talento dei giocatori, non poteva che assumere i connotati di una piccola sfida, consistente nello scrivere dei racconti di fantasmi.

Fu così che John Polidori, medico di Byron e figlio di Gaetano Polidori, segretario di Vittorio Alfieri, riprese la traccia del racconto lasciata incompiuta da Byron e vi edificò Il vampiro, il primo racconto in lingua inglese sui famigerati figli della notte che in seguito tanto affascinarono i lettori, irretiti da un fatale connubio di repulsione e di attrazione. Lord Ruthven, sofisticato dandy il cui pallore sembra sublimare, più che offuscare, i lineamenti gentili che tanto attraggono il gentil sesso e la cui apatica impassibilità di fronte agli accadimenti della vita lo rende misterioso e intrigante, è difatti l’archetipo del Conte Dracula di Bram Stoker o dei vampiri raffinati e decadenti di Anne Rice, sebbene il personaggio di Polidori non possieda la complessità psicologica dei suoi epigoni letterari, sofferenti talvolta per la solitudine dettata dalla loro condizione e alla ricerca di risposte sulle ragioni della propria presenza terrena.

La figura del vampiro dai tratti di gentiluomo, che si ciba letteralmente del sangue degli uomini come il feudatario e il nobile proprietario terriero si nutrivano metaforicamente del sangue di sudditi, mezzadri e contadini vessandoli con tasse, balzelli e lavori di corvée (il lavoro ingrato e gratuito detto appunto “angheria”), compie i suoi primi passi nelle pagine dei libri proprio con Lord Ruthven, che mostra la sua natura perversa per contrasto con quella ingenua e romantica di Lord Aubery, giunto a Londra con l’idea che il mondo amasse la virtù e che il vizio fosse concesso dalla Provvidenza solo per dare un tocco pittoresco alla vita, quasi come la malvagità dell’antagonista serve per dare colore e sapore ai romanzi.

Il giovane Aubery si avvicina a Ruthven e, da lui ben accolto, è invitato a compiere in sua compagnia un viaggio per l’Europa (in particolare nei luoghi della Grecia tanto amata da Byron, quasi a confermare il suo contributo iniziale al racconto successivamente strutturato da Polidori), una di quelle esperienze, come ci dice l’arguto e disincantato narratore, che hanno lo scopo di far conoscere ai più giovani il vizio, mettendoli così alla pari degli adulti. Una volta conosciuta la natura sadica e disumana di Ruthven, che elargisce consistenti somme di denaro a perdigiorno e scialacquatori, negando al contrario la stessa generosità alle persone virtuose ma sfortunate, e che cerca di corrompere le anime oneste per farle sprofondare nelle pastoie dell’immoralità, Aubery lo abbandona, finendo tuttavia per ritrovarlo in Grecia nel momento in cui capirà di avere a che fare con uno di quei vampiri che pensava esistessero solo nelle leggende e nelle superstizioni popolari a lui raccontate da Iante, una ragazza greca che gli aveva fatto da guida nell’esplorazione della selvaggia bellezza della Grecia.

Nel prosieguo del racconto, di cui non anticipiamo nulla al lettore, le diverse nature di Aubery e di Ruthven si mostrano immutate, con quest’ultimo che ci conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, la sottile razionalità del Male: “Forse/ tu non pensavi ch’io löico fossi!”.

 

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