AREA MISACULTURAIN PRIMO PIANO

Virginio Villani: “Il passato che perdiamo e che non ritroveremo più”

Virginio Villani: “Il passato che perdiamo e che non ritroveremo più”

Viaggio fra Arcevia e Sassoferrato sulle tracce delle vestigie di antiche chiese rurali

Virginio Villani: “Il passato che perdiamo e che non ritroveremo più” Virginio Villani: “Il passato che perdiamo e che non ritroveremo più” Virginio Villani: “Il passato che perdiamo e che non ritroveremo più” Virginio Villani: “Il passato che perdiamo e che non ritroveremo più”

di VIRGINIO VILLANI*

IL TERRITORIO FRA ARCEVIA E SASSOFERRATO VERSO IL VERSANTE DEL CESANO è caratterizzato da un susseguirsi irregolare e aspro di alture e pianori separati da profondi avvallamenti ad un’altezza media di 300 metri ed offre alcune delle vedute paesaggistiche più belle dell’entroterra montano delle Marche. Ancor oggi appare punteggiato di piccoli borghi e da un tessuto ora fitto ora raro di case isolate, purtroppo sempre meno abitate. Vi si accede attraverso un saliscendi di strade tortuose, che permettono di scoprire ampie vedute paesaggistiche fino alle pendici montuose del preappennino, ai piedi delle quali si scorgono i borghi sassoferratesi di Doglio, Rotondo e Monterosso.

Lungo il percorso non è raro incontrare le vestigia di antiche chiesette rurali, per lo più risalenti al medioevo, quando fungevano da nodi connettivi del reticolo insediativo e da centri di aggregazione delle attività sociali e della vita religiosa di tutto il territorio. Quasi tutte sono state abbandonate da tempo e versano in grave stato di degrado e tuttavia alcune sono di particolare antichità, meritevoli di essere ricordate e anche in qualche modo conservate come testimonianze di un passato ricco di storia minore ed elementi identitari del territorio e delle comunità.

Quasi tutte, anche se restaurate e rimaneggiate nel tempo, conservano il loro aspetto originario, caratterizzato dall’uso di pietra arenaria quelle più povere, o da filaretti regolari di conci squadrati in calcare bianco quelle più curate: tutte in origine erano ornate di affreschi parietali, di cui resta qua e là qualche frammento.

In una fredda e limpida mattina di dicembre, guidato da Enrico Alessandrelli, memoria storica e nume tutelare dei luoghi, e in compagnia dell’eclettico poligrafo e cultore di storia, poesia ed arte Alvaro Rossi, ho avuto modo di visitare alcune di queste chiesette abbandonate. La prima e la più illustre è quella di S. Lorenzino già S. Lorenzo di Collalto posta fra Cabernardi e Camarano. Probabilmente è uno dei primi luoghi di culto appartenenti a Fonte Avellana, al centro di un’area in cui numerose erano le proprietà dell’Eremo fin verso fra S. Donnino e S. Croce di Arcevia. E’ attestata fin dal 1139 nel privilegio con cui papa Innocenzo II riconosceva e confermava le proprietà e le dipendenze dell’eremo. L’edificio annesso ad una casa colonica pericolante è ormai in rovina, con il tetto parzialmente crollato insieme agli intonaci e agli stucchi delle pareti e dell’altare; resta sulla parete di fondo un frammento di affresco raffigurante la crocifissione.

La seconda chiesa è S. Maria di Doglio nei pressi della frazione omonima alle falde del monte Doglio in prossimità del confine con Pergola. Sorge a monte del piccolo borgo lungo la strada (oggi sentiero) che conduceva all’antico castello medievale. Se ne ha menzione fin dal Duecento ed era chiesa parrocchiale soggetta al vescovo di Nocera. Presenta una solida struttura in filari regolari di pietra con due portali a sesto acuto e un finestrone sulla parete di fondo ora tamponato, mentre la copertura anche qui è in parte crollata. L’interno è esposto al vandalismo e reca chiari segni di manomissione, mente le pareti sono minacciate all’esterno da alberi cresciuti a ridosso, che protendono i rami sopra il tetto. Potrebbe essere restaurata, ma è urgente eliminare la vegetazione che ne sta compromettendo la stabilità.

La terza chiesetta è quella di S. Stefano di Camazzocchi già S. Stefano de Cordenase ad est di Doglio nei pressi della frazione omonima. Anche questa apparteneva a Fonte Avellana ed è attestata dal diploma del 1139. Appare intonacata all’esterno e all’interno e dovrebbe aver subito un intervento di restauro in tempi non lontani. Conserva l’altare con un ingenuo affresco di artista locale datato 1820 raffigurante S. Stefano e S. Ubaldo. E’ in buono stato di conservazione, ma è aperta ed esposta al vandalismo. Basterebbe solo un po’ di manutenzione e magari una celebrazione annuale in occasione della ricorrenza di uno dei sue santi titolari.

Unica nota felice in un panorama così desolante è il recente restauro della chiesa di S. Pietro di Capoggi, anticamente S. Pietro de Giglionibus, dipendenza fin dal sec. XII dall’abbazia di S. Silvestro di Nonantola presso Modena. L’edificio non era in condizioni molto migliori di quelle già menzionate, ma la caparbietà e le sollecitazioni appassionate di Enrico Alessandrelli e l’impegno convinto dell’arch. Pacheco della Sovrintendenza ai beni culturali ne hanno reso possibile il restauro con l’ottimo risultato che è sotto gli occhi di tutti.

*Presidente di Italia Nostra di Senigallia

Ag – RIPRODUZIONE RISERVATA - www.laltrogiornale.it